Sentenza n. 17 del 1992

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SENTENZA N. 17

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 47, comma primo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 ("Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà"), come modificato ed integrato dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 e come modificato dalla sentenza n. 386/89 della Corte costituzionale promosso con ordinanza emessa il 26 ottobre 1990 dal Tribunale di sorveglianza di Torino nei procedimenti di sorveglianza riuniti nei confronti di Abbate Gaetano ed altri iscritta al n. 383 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 novembre 1991 il Giudice relatore Renato Granata;

Ritenuto in fatto

 

Il Tribunale di sorveglianza di Torino, con ordinanza del 26 ottobre 1990, emessa nei procedimenti riuniti relativi all'affidamento in prova al servizio sociale di Gaetano Abbate ed altri, ha dubitato della legittimità costituzionale:

a) dell'art. 47 comma primo, dell'ordinamento penitenziario (leggi n.354/75 e n. 663/86), che esclude la concessione del suddetto beneficio "se la pena detentiva inflitta supera i tre anni", nel testo attuale quale risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 386 del 1989 che ha dichiarato la parziale illegittimità della norma "nella parte in cui non prevede che ... ai fini della determinazione del limite dei tre anni non si debba tener conto ... delle pene espiate": per contrasto con gli artt. 111 e 70 Cost.;

b) in subordine, dello stesso art. 47 ord. pen. come interpretato dalla Corte di Cassazione, sulla base della menzionata sentenza costituzionale, nel senso della concedibilità del beneficio anche a soggetti condannati "con unica sentenza" a pena superiore ai tre anni, quando il residuo di pena in espiazione sia inferiore al detto limite: per contrasto con l'art.3 Cost.

Nella specie - venendo il beneficio richiesto da soggetti che, ancorchè condannati con sentenza unica o con più sentenze cumulate a pene superiori ai tre anni, hanno tutti allo stato da espiare (detratta la parte di pena già sofferta) un residuo inferiore al detto limite - l'ammissibilità delle istanze dipende appunto - sottolinea il Tribunale - dalla applicazione della norma denunciata: dal che la rilevanza delle questioni sollevate.

Nel merito, poi, il dubbio di legittimità del modificato art.47 ord. pen. sarebbe - sempre ad avviso del giudice a quo - non manifestamente infondato, in riferimento, innanzitutto, agli articoli 111 e 70 Cost.

In relazione al primo dei due richiamati parametri, la ricordata sentenza n.386/89 - argomentando l'irragionevolezza del computo (ai fini del superamento del limite dei tre anni) della pena già espiata in comparazione ad una, in realtà insussistente, costante giurisprudenza della Cassazione escludente, agli stessi fini, il computo delle pene condonate o comunque estinte - sarebbe infatti incorsa in un palese errore nella ricognizione del diritto vivente [individuabile nell'interpretazione del citato art. 47 o.p. data dalle Sezioni unite, in senso puntualmente contrario a quella presupposto dalla Corte Costituzionale], conseguentemente così di fatto annullando una decisione del Giudice della nomofilachia, in violazione appunto del citato art. 111 cost.

Parallelamente, con riguardo al parametro dell'art. 70 Cost., l'ipotizzata usurpazione della funzione legislativa è ravvisata dai giudici torinesi nell'alterazione che sempre la menzionata sentenza 386/89 avrebbe arbitrariamente operato della finalità dell'affidamento in prova che nel disegno del legislatore, chiaramente espresso nell'iter parlamentare del provvedimento, avrebbe dovuto costituire una alternativa non già generica alla detenzione dell'ultimo triennio, sibbene specifica alla pena, di contenuta entità, inflitta a delinquenti "minimi o redimibili".

Inoltre, la norma denunciata - così come poi interpretata dalla Corte di Cassazione, sulla base della citata sentenza costituzionale 386/89, nel senso che, per la concessione dell'affidamento, occorra ora fare unicamente riferimento alla pena residua, prescindendo dalla entità di quella inflitta sia con più condanne cumulate che con unica condanna - opererebbe una irragionevole equiparazione, ai fini indicati, di situazioni non omogenee.

2. Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri per eccepire preliminarmente l'inammissibilità delle sollevate questioni, in quanto surrettiziamente rivolte a provocare un non consentito sindacato di una decisione costituzionale di accoglimento, e in subordine, nel merito, la loro infondatezza.

In particolare, ha escluso che possa ipotizzarsi la denunciata violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevol equiparazione di situazioni non omogenee, dacchè, viceversa < < in relazione alla identica pena espianda non è legittimo distinguere le posizioni dei singoli condannati con riferimento ai reati commessi e alle relative sentenze di condanna>>.

Mentre la diversità di posizioni con riferimento ai precedenti penali assumerebbe rilievo con riferimento alla prognosi relativa agli effetti rieducativi del provvedimento di affidamento e alla prevenzione del pericolo di ricadute: ai fini quindi della concessione in concreto e non già dell'ammissibilità in astratto del beneficio in parola.

Considerato in diritto

 

1 - L'art. 47 della legge 26 luglio 1975 n. 354 sull'ordinamento penitenziario (come modificato dall'art.11 della legge 10 ottobre 1986 n.663) - nel disciplinare l'affidamento in prova, del condannato al servizio sociale, fuori dall'istituto, per un periodo uguale a quello della pena da scontare - dispone, al comma primo, che il beneficio può essere concesso "se la pena inflitta non supera i tre anni".

2 - Con sentenza n. 386 dell'11 luglio 1989, questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma suddetta "nella parte in cui non prevede che, nel computo delle pene, ai fini della determinazione del limite dei tre anni, non si debba tener conto "(agli effetti della detraibilità del quantum originariamente irrogato)" anche delle pene espiate "(al pari di quelle condonate od estinte).

E, con successiva ordinanza n. 509 del 1990, nel chiarire la portata di quella pronuncia, ha puntualizzato che essa - "se pur ha risolto una questione concernente un cumulo di pene derivanti da più sentenze" - si riferisce anche ai casi di pene inflitte "per più reati con unica sentenza".

3 - Con l'ordinanza in epigrafe, il tribunale di sorveglianza di Torino impugna ora nuovamente il citato art. 47 o.p. "nel testo risultante dalla sentenza costituzionale n. 386 del 1989", assumendone il contrasto:

a) con l'art.111 della Costituzione, sul rilievo che la ricordata sentenza sarebbe frutto di una errata ricognizione del diritto vivente, per avere essa presupposto che la norma in oggetto, nella sua applicazione giurisprudenziale, già consentisse di non tener conto (agli effetti del limite in questione) delle pene condonate, così di fatto annullando la contraria interpretazione sul punto viceversa espressa dalla Cassazione, cui spetta il compito della nomofilachia;

b) con l'art.70 della Costituzione, per avere la stessa sentenza ribaltato la finalità legislativamente assegnata all'affidamento in prova di misura alternativa alla pena inflitta a microdelinquenti.

E, in via subordinata, denuncia il medesimo art. 47 - "come interpretato dalla (successiva giurisprudenza della) Cassazione, sulla base della predetta sentenza n. 386/89 della Corte Costituzionale", nel senso che la regola di detraibilità (anche) dell'espiato, ai fini del computo della "pena inflitta", trovi applicazione "sia nel caso di esecuzione di pene irrogate con pluralità di sentenze di condanna, che con unica decisione" - per l'irragionevole equiparazione, che ne conseguirebbe, di situazioni non omogenee, in violazione dell'art.3 Cost.

4 - L'avvocatura dello Stato, per l'intervenuto Presidente del Consiglio dei Ministri, ha eccepito in linea preliminare la manifesta inammissibilità della impugnativa e, in via gradata, la sua infondatezza.

5 - L'eccezione di inammissibilità va senz'altro accolta con riguardo alle due prime questioni.

E, invero, le censure di violazione degli artt. 111 e 70 della Costituzione in esse formulate - se pur nominalmente riferite all'art.47 o.p. "come risultante a seguito della sentenza n. 386/89" - sono all'evidenza sostanzialmente invece rivolte a sindacare proprio la suddetta statuizione della Corte: il che - come è pacifico - è irrimediabilmente precluso dal principio di non impugnabilità delle decisioni della Corte consacrato nell'art. 137 co. 3, Costituzione (cfr., ex plurimis ord.ze 27/90; 482/90).

6. Ma anche la successiva (subordinata) denuncia di violazione dell'art. 3 Cost. è, per l'identico motivo, del pari inammissibile: dacchè, nel censurare l'estensione del principio di detraibilità della pena espiata (ai fini del computo della pena inflitta ex art. 47 cit.) anche a fattispecie di condanna a pena superiore ai tre anni, per effetto di concorso o continuazione, "con unica sentenza", il Tribunale rimettente erroneamente attribuisce alla successiva esegesi della Cassazione una statuizione che (come precisato nella ricordata ordinanza n.509/90) era in realtà, invece, già insita nella sentenza n. 386/89. Per cui, anche sotto tale profilo, la denuncia si risolve in una non consentita impugnativa di precedente decisione della Corte di accoglimento.

7. Diverso quesito - che, per quanto risulta dai dati di fatto riferiti nella ordinanza, potrebbe riguardare la posizione di taluno dei condannati interessati nel procedimento a quo - è quello se il beneficio in parola possa concedersi anche a soggetti [cui resti da espiare un residuo di pena inferiore ai tre anni, ma] ai quali sia stata inizialmente irrogata una pena superiore al detto limite per un unico reato.

Il punto - che non forma oggetto di specifica denunzia nell'ordinanza di rinvio - non è stato esaminato dalla ricordata sentenza n.386/89 nè, a quanto risulta, dalla successiva giurisprudenza dei giudici ordinari: in proposito, quindi, il tribunale a quo è pienamente libero nel suo potere interpretativo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art.47 comma primo della legge 10 ottobre 1986 n. 663 "come risultante a seguito della sentenza n. 386 del 1989 della Corte Costituzionale", sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Torino in riferimento agli artt.3, 70, 111 Cost., con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22/01/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 gennaio del 1992.